Made in italy e filiera agricola italiana: l'importanza per la birra artigianale

Made in Italy: un marchio-non marchio riconosciuto nel mondo che si porta dietro innumerevoli riferimenti a una filosofia di vita improntata al buono, al legame con la terra, all’amore per il bello.

Il mito del Made in Italy

Il pensiero dello “stile italiano” è un mito culturale dal Giappone agli USA, dalla Cina al Sudafrica, dall’Australia alla Russia; che trova fondamento sullo straordinario patrimonio naturale, artistico e artigianale che connota il nostro Paese e si concretizza in una disposizione nei confronti della vita dotata di una propria, indiscutibile, tipica sensibilità.

Il concetto di Made in Italy permea l’immaginario collettivo globale in una forma “chiara e confusa” che riunisce le eccellenze produttive della nostra Terra e le loro sconfinate declinazioni gastronomiche, il gusto della haute couture e delle produzioni motoristiche di lusso, il turismo dei territori a vocazione agro-vinicola e paesaggistica, delle coste, dell’incommensurabile ricchezza delle nostre città d’arte. È un bene messo a disposizione del Mondo che però, in assenza di una comunicazione univoca e di una specifica istituzionale (ad oggi manca ancora, infatti, un ente di certificazione unico dell’autentico prodotto italiano) rimane soggetto alle scorrerie di opportunisti che cercano a vario titolo di cavalcarne l’onda.

Italian Sounding: filiera italiana o fake?

Per Italian Sounding si intende la galassia di prodotti che “suonano italiani” senza esserlo davvero, dal Parmesão brasiliano al Prosciutto San Daniele prodotto in Canada, dal vino frizzante Kressecco tedesco alla Barbera bianca dalla Romania, dall’equivoco e onnipresente salume “Bologna” al San Marzano californiano – passando naturalmente per i marchi dell’industria birraria che fanno ampio sfoggio di riferimenti regionali italiani, ma appartengono in realtà, interamente, a multinazionali estere.

Le dimensioni del mercato dei prodotti fake Italian sono imponenti: se è vero che nell’ultimo decennio l’export agroalimentare di casa nostra ha vissuto una crescita importante, infrangendo una serie di record successivi culminati nel 2019 in un valore complessivo di 44,6 miliardi di euro, è altrettanto vero che nello stesso anno, secondo dati Coldiretti e Filiera Italia, il giro d’affari dei prodotti pseudo-italiani ha superato a livello globale la barriera dei 100 miliardi.

Se ne ha che per ogni prodotto italiano reperibile all’estero esistono in media oltre due “cloni” di origine diversa.

I tentativi di rafforzamento del Made in Italy

Negli anni si è provato a reagire a questa opportunità sprecata con iniziative governative lodevoli, come l’introduzione nell’Ordinamento italiano di misure di legge che obbligano ad indicare la provenienza delle materie prime sulle etichette dei prodotti alimentari, e la lunga “battaglia” che ne è seguita con la UE affinché tali prescrizioni venissero recepite a livello comunitario o quantomeno non travalicate dalle disposizioni di Bruxelles… O come il progetto True Italian Taste, patrocinato dal Ministero dello Sviluppo Economico, che tramite una piattaforma web, incontri didattici, masterclass si impegna a diffondere nei consumatori dei principali Paesi esteri elementi di cultura del cibo italiano.

Ciò che finora è mancato per affermare in maniera piena il Made in Italy è una certificazione trasversale e unica destinata alla presenza sul mercato estero – se vogliamo un “marchio di garanzia” – che autentichi l’originalità delle produzioni nazionali.

Per una serie di motivi dovuti alla presa d’iniziativa, alle impasse burocratiche, ai difficili equilibri politici e commerciali italiani e mondiali il consolidamento di una simile realtà appare ancora oggi irraggiungibile: come può quindi il Made in Italy difendersi e promuoversi, in assenza di un simile coordinamento centrale?

Quali sono i passi che possiamo fare per rafforzare la filiera produttiva italiana?

Quello che possiamo senz’altro fare è, come da nostro DNA, differenziarci per qualità e mantenere i nostri prodotti a livelli d’eccellenza e specificità irraggiungibili per gli emuli “da prezzo” reperibili sui mercati internazionali: ancora una volta perché sarà possibile plagiare i nomi dei nostri prodotti, ma non la terra da cui provengono o il know-how secolare con il quale vengono trasformati.

In termini birrari, dovremo sempre più rafforzare il legame delle produzioni italiane con la loro natura agricola, operare per la costituzione e l’irrobustimento di una filiera 100% italiana che segua l’evoluzione della bevanda artigianale dalla terra al bicchiere, e fare di questo tipo di concetto il vero valore aggiunto che identifichi le nostre birre di qualità come profondamente “italiane”.

I birrai di casa nostra hanno dimostrato di saper infondere nelle proprie creazioni stile inconfondibile e sensibilità gastronomica: ora è il momento di integrare questa forma di italianità con una consapevole e approfondita visione olistica della produzione delle materie prime, e delle loro specificità territoriali.

Solo così la birra artigianale italiana potrà affermarsi a pieno titolo come componente essenziale del paniere di prodotti caratteristici dello Stivale, che costituiscono per noi italiani tanto un motivo d’orgoglio che un’irrinunciabile opportunità commerciale.

 

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